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Il paradosso dell’inclusività: da Eddie Redmayne a Kit Connor

  • Cristina Cavicchini
  • 25 nov 2022
  • Tempo di lettura: 3 min

Parola d’ordine per il XXI secolo? Inclusività, a tutti i costi. Il mondo sta cambiando e così anche il cinema, com’è giusto che sia. Ma a quale prezzo?


Negli ultimi giorni ha spopolato online la notizia della bisessualità - involontariamente dichiarata - di Kit Connor, co protagonista della nuova serie Netflix Heartstopper. Soffermiamoci su quell’involontariamente dichiarata.

Connor è finito al centro di una polemica dopo essere stato visto tenersi per mano con l'attrice Maia Reficco, sua co-protagonista nel film indipendente A Cuban Girl's Guide to Tea and Tomorrow e - per porre fine alle discussioni - è stato spinto a esporsi più di quanto volesse, senza essere pronto. La polemica? L’attore è stato accusato di queerbaiting, ovvero, di essere eterosessuale ma di interpretare un personaggio LGBTQIA+.

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Sul suo profilo Twitter, riaperto per l’occasione, ha scritto «Sono bisessuale. Congratulazioni per aver costretto un diciottenne a fare coming out. Penso che alcuni di voi non abbiano capito il senso dello show».


La vicenda di Kit ci rimanda a quella meno recente di Eddie Redmayne. Nel novembre del 2021 l’attore di The Danish Girl ha dichiarato che, se potesse, non ricoprirebbe di nuovo il ruolo di Lili Elbe, pittrice transgender che ha ispirato il film di Tom Hopper. Il motivo? il ruolo spettava ad un’attrice trans, dice Redmayne. Intervistato dal Sunday Times, l’attore britannico ha detto “Non lo rifarei. E’ stata una scelta compiuta con le migliori intenzioni, ma è stata sbagliata”.

All’epoca in molti lamentarono che il ruolo non fosse stato assegnato ad un’attrice trans. Lo stesso Redmayne aveva sottolineato come per anni il successo di attori cisgender era stato costruito sulle spalle di storie di trans, aggiungendo però che «si dovrebbe poter recitare qualsiasi tipo di parte se la si interpreta con un senso di integrità e responsabilità».

Pensiero condiviso da quelle voci che percepiscono la recitazione come l’interpretazione di qualcuno diverso da sé, da intellettuali come Bret Easton Ellis che desidererebbero semplicemente dei prodotti artistici al meglio delle loro possibilità, indipendentemente dal genere degli attori.

La carriera di Hilary Swank, ad esempio, dovrà essere grata in eterno al suo ruolo in Boys don’t cry. Una sorta di consacrazione che le ha fatto vincere il premio Oscar e che l’ha vista nei panni di Teena Brandon, una donna che si trasforma in un uomo e che finisce per essere stuprata e uccisa dai suoi “amici” quando questi scoprono la verità. Così come Albert Nobbs per Glenn Close e Dallas Buyers Club per Jared Leto.

Performance da Oscar che oltretutto hanno portato all’attenzione del pubblico il lato umano e sociologico della questione.


Ora, quand'è che il genere sessuale ha soppiantato la prova attoriale? E quando la società ha iniziato a decidere per la direzione artistica? Non bastava la kunstwollen di Tom Hooper (nel caso di Redmayne), serviva anche una comunità che fungesse da gender manager?

Volere a tutti i costi un attore trans perché trans è il personaggio, significa considerare la transessualità come unica parte rilevante di una persona, e quindi, di fatto, discriminarla. E’ nostro imperativo assicurare pari opportunità, ma non è ghettizzando i ruoli che questo avverrà.


Una volta, sul set del Maratoneta, Lawrence Olivier, coprotagonista del film insieme a Dustin Hoffman, scoprì il suo collega mentre faceva su e giù per delle scale in un esercizio ossessivo. “Cosa stai facendo?”, gli chiese. “Ho bisogno di affaticarmi il più possibile per immedesimarmi nell’azione della scena di caccia e fuga che stiamo per girare”, rispose l’attore americano a quello inglese. Olivier annuì. “Perché, tu come fai?”, chiese Hoffman. “Io fingo” disse l’attore.




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